Storie e leggende

Il fantasma del lago

Il nome di Nerone è stato spesso associato al paese di Massaciuccoli. Fino a non molto tempo addietro si era soliti chiamare Bagni di Nerone il complesso ora riconosciuto come ambiente termale appartenente alla famosa Villa dei Venulei che sorgeva sulle prime colline di Massaciuccoli. A questa celebrità si accompagnava, fino a qualche anno indietro, un’altra più modesta testimonianza: un locale pubblico chiamato La buca di Nerone. A chi avesse domandato perchè il tornare di quel nome nella storia del paese in molti avrebbero risposto che il nome proveniva direttamente dall’imperatore romano che qui si trovò a passare alcuni giorni, negli ultimi anni della sua vita quando temendo la maledizione della madre, uccisa per volontà di quello scellerato figlio, si ritrovò appunto a vivere in una grotta, una buca sottoterra, per timore di essere colpito da un fulmine come la madre gli avrebbe predetto.

Del resto, almeno dai tempi passati, ci viene la testimonianza di qualche misteriosa presenza, inspiegabile con le normali ragioni e regole quotidiane, all’improvviso apparsa tra le foschie e acque del lago e altrettanto misteriosamente svanita. Tra queste testimonianze la più inquietante è quella di un laborioso contadino di Massaciuccoli, Girolamo. Appassionato pescatore gli piaceva a volte trascorrere la notte tra i falaschi e le ombre del padule, come nella notte del nostro racconto, quando solo solo con la sua lanterna a olio, incurante dei timori della moglie, si era incamminato per raggiungere il capanno da pesca, posto sull’argine di un fosso che immetteva nel lago.

Qui giunto, messo piede sulla sua barca là ormeggiata, aveva cominciato a ispezionare i suoi 'bertibelli' posizionati il giorno precedente lungo le acque del canale. Pieni di pesce come aveva sperato già si gustava nell’immaginazione il ritorno a casa, la felicità della famiglia alla vista di quell’abbondanza, di tutto quel pesce fresco, quando all’improvviso la barca sobbalzò, come investita da un’onda. La notte era buia buia, un lontano brontolio faceva presagire un temporale in arrivo. Girolamo si girò di scatto cercando di vedere nel buio oltre la fievole luce della candela e gli parve di vedere come un tentacolo, un grosso braccio che si agitava vicino alla barca, agitando l’acqua poco prima ferma e immobile. Preso da paura con un balzo fu nelle acque del canale e in poche bracciate raggiunse la riva. Ebbe ancora il tempo di dare un ultimo sguardo alla sua barca piena d’acqua quando vide alzarsi dietro quella qualcosa che gli pareva una grossa testa.

Recuperato un po’ di coraggio, ora al sicuro sulla riva «Chi sei? mascalzone» gridò quasi paventando lo scherzo di qualcuno che volesse impadronirsi del suo pesce. «Come osi villano così parlare a un imperatore. — tuonò nel buio un’aspra voce — Da diciannove secoli qui vivo, confuso con le acque e il fango di questo lago, assetato ora, come una volta lo ero di sangue, di aria che ogni tanto mi è concesso di respirare, venendo alla superficie dove cerco di rimanere aggrappandomi a qualche barca che sia nelle vicinanze prima di essere risucchiato verso il fondo. Devi ringraziare il destino  perchè altri non ebbero la tua fortuna di ….» quando con fragore un fulmine si abbatté su quella creatura incidendo un nome a lettere di fuoco sulla sua fronte: Nerone, mentre tutt’intorno il falasco divampò in una sola fiamma.

A quella vista Girolamo cominciò a correre a perdifiato verso casa, inseguito da quell’odore di bruciato, dal temporale che pareva volerlo inghiottire, da quel nome di fuoco che non abbandonava i suoi occhi. Giunto a casa riparò nel letto senza aprire bocca, senza dire niente di quanto accaduto. Fu alcuni giorni dopo che alle domande sempre più insistenti della moglie confidò quanto gli era successo, e da questa la sua storia divenne ben presto di pubblica conoscenza.

Quasi nessuno credette però al suo racconto. Forse — fu la spiegazione dei tanti — per un maldestro movimento o qualche altro accidente la sua barca si sarà rovesciata, e forse qualche bicchiere di vino in più gli avrà fatto immaginare, di un 'cestone' o di qualche altra cosa galleggiante nel lago, quella strana creatura che nessuno mai era tornato a raccontare.

La vecchia del Burlamacca

Ai confini nord del lago, dove questo s’incontra al canale Burlamacca suo emissario per alcuni chilometri prima di raggiungere le spiagge di Viareggio viveva un tempo lontano una donna, in gioventù bella e gaudente, ma che il tempo aveva rubato di questi doni rendendola vecchia e scontrosa. Non era mai in pace con i vicini, ai quali non perdonava niente, anzi se poteva fare qualche dispetto, procurare qualche dispiacere, era sempre con grande soddisfazione pronta.

Aveva da ridire su tutto e tutti; maldicente e maligna non c’era persona sulla quale non avesse messo in giro bugie e calunnie, sempre pronta ad attaccare briga con chiunque capitasse nelle vicinanze della sua casetta. Un giorno al passaggio di una barca che transitava dal lago verso il mare cominciò a prendersela con il povero barcaiolo che a suo dire aveva disturbato la quiete e il suo riposo e siccome questi osò rispondergli per le rime cominciò a mandargli accidenti, a tirargli sassi sbraitando, e per dare più forza alle sue parole, trascinata dall’ira, tirò contro quella barca anche il rosario che portava appeso al collo «Che possa portarti sul fondo te e la tua barca!» urlava.

Una sera, non tanto tempo dopo, era già primavera inoltrata, alla finestra della sua casetta gli apparvero due lumicini, che sembravano quasi danzare nei loro movimenti. La vecchia prima pensò a delle lucciole, poi gli venne il sospetto che fossero dei ragazzi che volevano giocare o prenderla in giro. Armata di scopa si precipitò fuori per allontanarli ma le due luci si rivelarono essere due fuochi che danzavano nell’aria, ammalianti, seducenti, come guidati da qualche strana musica. Si fermò a guardarli sedotta dai loro movimenti: si muovevano, nei loro ghirigori, quasi disegnando nella notte delle magiche linee, e mentre continuavano a danzare lentamente si spostavano verso il bordo del canale.

La vecchia li seguiva, stupita, quasi voleva afferrarli, si avvicinò anche lei all’orlo del fosso, allungò le mani ma senza rendersi conto di quello che faceva perse l’equilibrio e cadde, circondata da quelle luci, nelle melmose acque. Nel buio della notte si sentirono le sue urla chiedere aiuto ma nessuno vedeva niente, nessuno potè aiutarla; così affogò, in quello stesso punto dove aveva gettato il rosario. La sua storia sarebbe forse passata nell’oblio insieme al tempo che la generò se non fosse per strane apparizioni che in certe notti senza luna, in una specie di brusio che aleggia sulle rive simile a un lontano lamento, sembrano prendere vita sul fondo delle acque dove qualcuno, che si è trovato a passare per quei luoghi, dice di avere intravisto una specie di bianca figura che si muove, quasi volesse divincolarsi dal fondo, dove è tenuta ferma da una collana, forse un rosario, stretta intorno al collo.

Il luccio alto quanto un uomo

Si narra che due bracconieri una notte andando al 'foone' (pratica di pesca proibita in quanto svolta durante la notte con una lampada a carburo usata per abbagliare i pesci che rimanendo immobili possono essere facilmente catturati con la fiocina) perlustrando le acque di un chiaro si imbatterono in un luccio gigante. Sorpresi, increduli, si avvicinarono alla preda ma questa si allontanò rapidamente. I due presero così a frequentare quella parte di lago fidando di imbattersi nuovamente nello straordinario animale. E infatti, una notte nuovamente avvistatolo e avvicinatisi, questa volta con mille cautele, riuscirono alla fine a colpirlo con la fiocina. L’animale cercò inutilmente di liberarsi, lottando per liberarsi trascinò dietro di sé la barca per alcune centinaia di metri prima di arrendersi e morire. Era talmente grosso e pesante che con difficoltà riuscirono a caricarlo a bordo dopo diversi e vani tentativi. Sembra che fosse tanto lungo quasi quanto l’intera imbarcazione. Muovendosi con attenzione e circospezione i due si avviarono verso la riva. Qui giunti si resero conto che non avrebbero potuto trasportarlo con le loro biciclette, così lo lasciarono dentro la barca che coprirono con del falasco.

Andarono a chiamare un loro parente, proprietario di un carretto adatto a quel trasporto, ma essendo le tre di notte per poter disporre del carretto questi gli chiese in cambio dell'aiuto una parte del luccio. Esaudita la sua richiesta con una solenne promessa riuscirono alfine a portare l’animale fino alla loro casa.

Nel pomeriggio di quello stesso giorno, come sempre, i due bracconieri si recarono al bar del paese con l’impegno di non parlare di quanto era successo quella notte. Però, come sempre succede, dietro qualche bicchiere di vino, quella storia venne quasi subito fuori con tutta la descrizione di quel luccio alto quasi quanto un uomo e delle difficoltà incontrate per poterlo catturare e poi per portarlo a casa. Nessuno naturalmente credeva a quanto raccontato: nessuno mai aveva visto animali simili nel lago: un luccio del genere non poteva esistere. I due tra risate e sbeffeggiamenti venivano presi in giro per quella che sembrava una balla bella e buona. Allora uno dei due bracconieri invitò gli amici a seguirlo fino a casa per mostrare a tutti che quel pesce era vero e reale.

La compagnia incuriosita si avviò dietro di lui. Arrivati a casa entrò fiero in cucina, ansioso di far vedere la sua preda, e baldanzoso si avvicinò alla credenza dove aveva riposto l’animale, ma ahimè di questo rimaneva ben poco: la moglie non solo aveva già diviso il luccio in tre parti, due per i bracconieri e la terza per l’amico che li aveva aiutati nel trasporto, ma pure le aveva messe a cuocere in un grande paiolo. Ormai era impossibile mostrarne le dimensioni. L’uomo era verde di rabbia: aveva fatto una figura meschina, gli amici ridevano di lui, la sua reputazione in un attimo era completamente persa: non solo non poteva mostrare quanto fosse vera quella particolare storia ma più nessuno avrebbe creduto alle sue parole. E infatti per anni, quando gli succedeva di raccontare una qualche storia capitatagli sempre qualcuno lo guardava con un sorriso «Si, come il luccio alto quanto un uomo!».

Il serpente che terrorizzava le campagne

Anticamente la Selva Regia si estendeva dalle sponde del Serchio fino alle Fosse di Motrone, una boscaglia quasi inaccessibile, intricata e pericolosa, come confermano tante testimonianze storiche. Tra queste una storia, ripresa dal Tronci nei suoi Annali Pisani, che trova la sua originaria collocazione nelle campagne tra Migliarino e Vecchiano dove viveva un enorme serpente, ingordo di armenti, pericoloso per gli uomini quanto per gli animali tanto che le campagne e i luoghi finivano per essere abbandonati, così i pascoli e i sentieri, vivendo le popolazioni di quei luoghi in grandissima paura.

Quando un nobile e valoroso cavaliere, di nome Giovanni della famiglia degli Orlandi, pensando e ripensando a come si potesse affrontare quell’orribile belva che tanto timore incuteva nelle genti, pensò di usarne la voracità come propria alleata. Si sparse la voce che nessun animale domestico poteva essere lasciato libero per non offrire nessun tipo di alimento all’ingordo serpente e se possibile anche gli animali selvatici dovevano essere catturati o uccisi. Così fu fatto. Dopo qualche tempo, pensando il terribile serpente affamatissimo, il cavaliere fece costruire una gabbia di ferro con uno sportello che fosse accessibile a farvi passare una vitellina collegato però a un filo che, una volta mosso dal serpente stesso nel suo tentativo di entrare in quella per divorare la vitellina, azionava un congegno capace di chiudere la gabbia.

Pronta la gabbia, insieme ad altri cavalieri dopo una cerimonia religiosa che li benediva, partirono verso il cuore della macchia portando con sé sia la giovane vitella che la gabbia in ferro. Sistematala al centro di una radura presero riparo sopra i rami di un albero nelle vicinanze, fermi e immobili, e anche spaventati, su quei rami. L’attesa però durò poco: l’enorme animale, richiamato dai muggiti della vitella costretta tra le sbarre, ben presto apparve. Strisciando verso di lei, trovò ben presto il modo di entrare nella gabbia per divorarla ma in questo urtò il filo che ne provocò la chiusura come aveva ben congegnato l’Orlandi. Appena videro il serpente chiuso e prigioniero questi subito scesero dai rami dell’albero e con le lance lo uccisero. Tanto valorosa fu la loro azione e tanto grande era il corpo del serpente che fu portato in trofeo nel Duomo di Pisa dove fu appeso alle volte, alla vista di tutti.

Il convento di Montramito

Un tempo molto lontano da noi, intorno all’anno mille, all’ombra del castello di Montramito governato dagli Ubaldi, fieri signori di quelle terre, sorgeva un piccolo convento di frati, là costruito anche per la presenza di due rigogliose sorgenti che alimentavano di fresca acqua quelle terre.
Era una modesta comunità religiosa che come altre di quell’epoca viveva in povertà e preghiera, felice di quanto il Signore a loro offriva e di poterne testimoniare la presenza in quell’angolo di mondo. Le ore della giornata erano scandite da semplici regole, da semplici abitudini che avevano al proprio centro la povertà e la carità verso gli altri. Infatti non solo quelle mura dovevano ospitare i frati ma anche offrire conforto, un giaciglio e un pasto ai viandanti, ai pellegrini, inoltre, come tanti altri conventi dell’epoca, adoperarsi per curarne ferite e malattie.
Un giorno si presentò al convento un giovane che chiese di poter essere ammesso in quella comunità che fu ben felice di accettare la sua richiesta. Il suo arrivo si dimostrò subito quanto mai felice: per motivi di famiglia il giovane aveva dovuto interrompere gli studi di medicina, nei quali si era distinto per prontezza e capacità, ma giovane e ambizioso, volendo continuarli, aveva sposato per questo motivo la vita monastica. La piccola infermeria del convento conobbe sotto la sua guida una straordinaria attività. Ben presto la fama di quel luogo si sparse oltre il piccolo recinto della zona. Cominciarono a presentarsi anche nobili, prelati; insieme a questi cominciarono a comparire laute ricompense in denaro, com’è naturale comprendere in chi, avendone la possibilità, si veda finalmente guarito di un qualche male.
Il piccolo convento si stava trasformando in un efficiente ospedale: sempre maggiore era il numero di persone che veniva per una visita, per trovare un rimedio ai propri dolori: le ore di una giornata più non bastavano a soddisfare tutte quelle richieste. Fu così che i frati si trovarono costretti a operare delle scelte, e siccome dove Dio semina i suoi doni Satana sparge le proprie tentazioni, si cominciò a preferire chi poteva ricompensare quelle visite, e tanto maggiore era la ricompensa più pronta e sollecita la visita.
Si dirà che questo è quanto avveniva e ancora avviene nel mondo, ma quest’ultimo non è un convento dove si è giurato fedeltà a Dio e ai suoi comandamenti, così ben presto le porte del convento si chiusero a pellegrini e viandanti; le tavole, ora piene di ogni cibo, solo sfamavano l’ingordigia dei monaci.
Una tremenda notte di dicembre, tra pioggia e tuoni, bussò al portone del convento un uomo, un povero vecchio che aveva con sé un asinello sopra il quale sedeva la sua giovane sposa «Mia moglie aspetta un bambino, abbiamo freddo, non sappiamo dove andare, a chi rivolgerci, vi prego, fateci entrare, ci basta un poco di paglia e fieno per far nascere il bambino, poi ce ne andremo». Non fu loro neppure risposto, subito le porte si richiusero davanti alle loro lacrime.
Nel frattempo la tempesta aumentava d’intensità, la notte quasi si era ritirata allontanata dalla luce dei lampi, un vento impetuoso cominciò a vorticare intorno al convento: gli alberi venivano sradicati, le finestre e parti del tetto volarono in mille frantumi, tutto l’ordito di mura e sassi che l’uomo aveva nel tempo costruito cominciava a crollare, sul pavimento s’aprivano larghe crepe, finché l’intero convento s’inabissò inghiottito dalla terra.
Al mattino al posto delle solide mura si presentò agli occhi degli esterrefatti abitanti della zona un piccolo laghetto, limpido, azzurro come uno specchio del cielo. Del convento solo qualche pietra, in particolari condizioni di luce, sembrava tralucere incastrata tra le sponde. Sembrava non avere fondo, le sue acque erano fredde, gelide, e tali sempre sono rimaste anche nelle belle stagioni, tanto che nessuno mai ha osato immergersi in quelle. Fu chiamato il Lago Santo, nome che ritroviamo anche in alcune carte e mappe antiche, a memoria e ricordo di quella sua improvvisa origine.

 

Arturo Lini, da "Le vecchie signore del lago, le bilance del lago di Massaciuccoli", Fondazione Pomara Scibetta editrice, Milano, COLORè stampa e grafica, Lucca, novembre 2022, a cura di Arturo Lini - Amerigo Pelosini. Nel volume sono presenti anche alcune leggende del territorio in questo riportate da Paolo Fantozzi, e precisamente: Balla con l'Osso..balla senz'Osso, Il pirata convertito, I fantasmi nel padule di Massarosa (pag. 92-93). Il pescatore e la fata del lago, I fuochi Fatui, La  leggenda della Madonna e dell'Olivo (pag. 132-133). La barca con le strane visitatrici, Il Malavento, Il Capitano Buco e il Pellegrino (pag. 160-161). Le Buche di Nerone, La Corona di Nerone, La leggenda del castello di Aquilata (pag. 200-201). Le  fanciulle bianche, Lo spettro invitato a Nozze (pag. 252-253).