Il falasco

«Ecco, e su i carri per le vie maestre / passa il falasco. / Metuto fu dalla più grande falce / nella palude all’ombra del Quiesa, / ove raggiato di vermène il salce / par chioma accesa / tra cannelle di stridulo oro secco, / tra pigro sparto di pallor bronzino. / Su l’acqua un lampo di smeraldo, e il becco / tuffa il piombino.»
Gabriele D'Annunzio, da il Commiato, Alcyone, 1903

Come qualsiasi altro ambiente naturale abitato dall'uomo anche le aree palustri sono state usate e sfruttate al fine di prelevarne quelle risorse utili e necessarie alla sopravvivenza delle popolazioni indigene. Si stabiliva così - almeno fino all'avvento dell'epoca moderna quando ampie superfici vengono impiegate a particolari lavorazioni che andavano a sconvolgere l'assetto del territorio - un equilibrio tra uomo e natura, dove questa veniva preservata, mantenuta nei suoi delicati assetti ed equilibri necessari alla sua sopravvivenza e, in questo, di quella dell'uomo che la abitava. Già la popolazione etrusca si impiegava nella lavorazione delle erbe e piante palustri quali il giunco o la cannuccia, sortendone a una specie di ingegneria applicata nella costruzione di capanne dai tetti in paglia, e ad una industria minuta fatta di spazzole, stuoie e ceste.

Attività assai praticata nel comprensorio del lago, ripetuta poi lungo i secoli nelle sue modalità giunte fino agli anni Settanta del secolo scorso e permessa dalla presenza di alcuni tipi di pianta comuni in queste aree, tra le quali il falasco. Assai diffusa un tempo la lavorazione del falasco nelle paludi di Massaciuccoli ha avuto il proprio apice tra i secoli XVII e XIX. In quel periodo la maggior parte degli abitanti di Massarosa e delle altre frazioni vicine non si erano ancora stabiliti lungo le zone pianeggianti, orientate verso il mare paludose e inospitali,  ma vivevano prevalentemente a ridosso delle zone collinari, dalle quali, in particolari stagioni si trasferivano alle zone più basse per svolgere alcuni lavori tra i quali la falciatura del falasco, una volta che questo avesse raggiunto la propria maturazione, era l’appuntamento principale: "una enorme risorsa per tutte le popolazioniche che risiedevano nei paesi limitrofi al padule" scrive Amedeo Giannini in Tra biodoli e cannelle, Il Molo edizioni, 2018


Lago di
Massaciuccoli, primi decenni XX secolo, capanni con copertura in falasco

Il falasco era usato anche per la copertura e costruzione di semplici strutture di riparo per gli animali, o di rimessa per gli arnesi da lavoro. Modeste e semplici costruzioni, quasi elementi naturali dell'ambiente: pochi pali alzati su una base generalmente quadrangolare e collegati tra loro, sopra i quali si stendeva l'orditura del tetto, ricoperta dai fasci di falasco. Il falasco era infatti una materia prima molto richiesta per attività artigianali. Veniva utilizzato nella fabbricazione di sedie, di borse, canestri, per rivestire damigiane e bottiglie in vetro, ma anche intrecciato nella composizione di oggetti d'arredo. Oppure direttamente raccolto in fasci che poi venivano venduti. 

Veniva tagliato nei mesi autunnali per favorirne la ripresa vegetativa in primavera, con una particolare falce, la frullana, quindi raccolto in particolari punti sulle sponde del lago, messo sopra sopra i barchetti e con quelli si inviava verso i diversi porti dove era commercializzato ad altre zone: Lucca, i Comuni pisani. Da San Rocchino avrebbero caricato i carri diretti a Camaiore, Pietrasanta, come canta – è proprio il caso di dirlo tanta è la musicalità dei suoni – Gabriele D'Annunzio in questi versi sempre tratti da il Commiato, composto nei primi anni del Novecento.
« Su i gravi carri lungo le vie chiare / passa il falasco // Sono si vasti i cumoli spioventi / che il timone soperchiano dinnanzi / e il giogo cèlano e le corna e i lenti / corpi dei manzi, // onde sembran di lungi per sé mossi / e tra la polve aspetto hanno di strani / animali dai lanosi dossi, / dai ventri immani. // In fila vanno verso Pietrasanta, / strame ai presepi, ai campi ingrasso. / L'un carrettiere vócia e l'altro canta / a passo a passo.» 


 Lago di Massaciuccoli, trasporto del falasco. Si guidava l'imbarcazione con la stanga

A volte dopo una giornata di pesca o di caccia con mucchi di falasco e legna si accendevano fuochi sui quali venivano cucinati i pesci: le anguille, girate più volte sulle fiamme, oppure se settembre od ottobre, era il luccio il piatto preferito, quando la sua carne si ingentiliva e si faceva più saporita. A volte la lavorazione del falasco si combinava alla pratica della caccia e della pesca, e ad altre occupazioni agricole, adattandosi tutte queste attività alle diverse stagioni in cui l'una o l'altra diventava più proficua e praticabile; dando così vita a esistenze che trascorrevano nell'ambiente del lago quasi in simbiosi con i suoi elementi, seguendone i ritmi, e l'andare delle stagioni.

E pur misurando le ristrettezze e le difficoltà di quelle vite, se paragonate alla disponibilità di servizi e beni materiali che accompagna i nostri giorni, e pur volendo star lontani da ogni forma di retorica sul 'buon tempo andato', come da un braciere di ricordi acceso, pure ci si riempie di interrogativi, se non di inquietudini, tornando con la mente al senso di vastità, di infinitezza, e in fondo di libertà, che accompagna l'uomo che sente d'essere della natura parte; come fosse questa la sua vera casa, il suo autentico 'io', grande e vasto quanto il mondo stesso.

Da "Il lago di Massaciuccoli e le terre umide", testi di Arturo Lini, fotografie di Amerigo Pelosini, Caleidoscopio editore, Massarosa (LU), 2008. Vietata ogni riproduzione, distribuzione o altro uso dell'intero testo o sue parti, salvo il diritto di citazione.